Il pittore, l'opera e il restauro

Il pittore

Filippo Balbi (Napoli 1806  – Alatri 1890) iniziò giovanissimo il suo discepolato artistico, dapprima nella bottega paterna e successivamente presso il Real Istituto di Belle Arti di Napoli. Si trasferì poco più che trentenne a Roma, dove partecipò nel 1846 alla mostra curata dalla Società degli Amatori e Cultori di Belle Arti e ottenne dalla Congregazione dei Padri Certosini la prima importante commissione pubblica, l’opera di soggetto sacro: San Bruno alla Certosa di Grenoble. La stessa Congregazione  lo incaricò subito dopo di realizzare il nuovo partito decorativo nella Grangia certosina fuori Porta Maggiore. Nell’occasione il Balbi ebbe modo di sperimentare, attraverso un efficace repertorio di ornamentazioni, drappeggiature, finti marmi e soggetti allegorici, una singolare tecnica murale di sua invenzione, con la quale, tra il 1846 e il 1848, portò a termine l’intero progetto, dipingendo inoltre, sulle pareti della Cappella interna, alcuni soggetti di grandi dimensioni, tra cui il Riposo dalla fuga in Egitto, la Discesa di Mosè dal monte Sinai e l’Adorazione di Cristo morto.

In questo contesto di irrefrenabile e multiforme operosità, risultano anche documentati diversi e importanti cicli chiesastici: dagli otto medaglioni con figure di Santi, eseguiti tra il 1852 e il 1855 nel transetto della chiesa domenicana di Santa Maria sopra la Minerva, alla decorazione della cappella di San Luigi Gonzaga presso il Collegio Romano, realizzata tra il 1853 e il 1854, con scene e simbologie legate al tema dell’Eucarestia. Per il cantiere della Basilica di San Paolo fuori le mura produsse inoltre due grandi dipinti murali, raffiguranti L’abbraccio degli apostoli Pietro e Paolo e San Paolo condotto al martirio, realizzati entrambi nel 1856, in stretta connessione con un ulteriore impegno decorativo presso la Certosa di Santa Maria degli Angeli. Nel chiostro del monastero, con rinnovato virtuosismo tecnico, ideò sulle porte delle celle la celebre raffigurazione di Fra Fercoldo con cartigli e frasi morali, e una singolare serie di nature morte, tipiche della produzione più originale del pittore. A quest’ultima tipologia compositiva, infatti, il Balbi rimase pressoché legato per gran parte della sua attività lavorativa, dando luogo ad una copiosa ed eccellente elaborazione di disegni e di piccole tele di genere che esuleranno sempre più da quella primitiva vena di sapore naturalistico, per avvicinarsi, con maggior vigore, all’indagine analitica e artificiosa dei fioranti nordici. Nel 1860 ricevette il prestigioso incarico di ideare e dipingere per la Certosa di Trisulti, in Ciociaria,  un imponente ciclo pittorico da destinare alle pareti della chiesa monastica. Nacquero così le monumentali tele con episodi omologhi tra il vecchio Testamento e la storia dell’Ordine certosino, eseguite in loco dopo l’inevitabile trasferimento dell’artista presso il cenobio religioso. In questo periodo si dedicò anche al rinnovo della sontuosa decorazione della locale Farmacia. Nel 1863, esaurita la committenza, anziché far ritorno a Roma, preferì per ragioni di opportunità politica stabilirsi nella vicina Alatri, dove l’artista dovette ben presto misurarsi con le esigue pretese di una committenza modesta, connessa perlopiù alla cerchia delle confraternite o al circuito delle pie istituzioni locali. Trascorse gli ultimi anni della sua vita in uno stanco ripiegamento su se stesso, ma nonostante versasse in “ogni sorta di privazioni… non volle mai spiccare dalle pareti del suo Studio un disegno, o una tela per venderli”. Tra questi, secondo quanto si apprende dal suo biografo, il pittore custodì fino all’ultimo un singolare dipinto, eseguito a Roma nel 1854 e considerato fin da subito “una prova d’arte e di scienza anatomica rara”: La Testa Anatomica.

L'opera

Una significativa descrizione del dipinto si ricava dal Catalogo dell’Esposizione Universale di Parigi del 1855, cui la tavola fu ammessa a partecipare: “Il Maestro Balbi in una testa anatomica (volgarmente detta testa scorticata) ha rappresentato tutti i muscoli, tutti i tendini, tutti i movimenti della carne, attraverso dei corpi umani uniti nelle posizioni più naturali e più audaci”. Da queste parole è possibile comprendere come il dipinto si presenti, ad una prima sommaria osservazione, con le fattezze più comuni di uno “Scorticato”, ossia nelle vesti di un tipico compendio anatomico, tradizionalmente utilizzato dagli artisti per evidenziare, a scopo accademico, la struttura muscolare dell’uomo. Ma a ben guardare, la stessa immagine, servendosi di una vera e propria metafora alchemica, rivela la sua sostanziale originalità compositiva attraverso il fascino di un’enigmatica metamorfosi in atto. Per insinuare all’interno della plausibile verosimiglianza miologica il germe di un paradosso il pittore non esita a far ricorso ad un equivoco giuoco di corpi, a ideare una fitta tela di intrecci umani che, con evidente e obbligata attinenza, si assoggettano al dettaglio anatomico per dare forma alla fisionomia di tutta la Testa. Per questo motivo ogni singolo elemento, benché risulti dipinto con un’organica coerenza descrittiva, sembra come dileguarsi al pari di un miraggio fugace, per poi riapparire in quel vortice implacabile, al fine di ridare, con altrettanta coerenza, un assetto compiuto all’intera figura. Ma a ben riflettere, sta proprio in questo il sublime artificio compiuto dal pittore, il quale, tenendo conto del labile confine tra il reale e il fantastico, impone alla vista una sorta di allucinazione che, per sua stessa natura, non può non risolversi nel sottile inganno delle apparenze. In ragione di un tale prodigio, tutto appare dosato secondo un’attenzione estrema all’equilibrio delle proporzioni e alla congruenza chiaroscurale, entrambi unificati dall’opaca matericità del colore e coesi da un vigoroso fascio di luce che investe lateralmente il profilo. A suggerire la possibilità di un’inedita interpretazione iconologica concorre una laconica espressione dello stesso Balbi, secondo cui i muscoli descritti nella tavola sarebbero “formati da tante figure ed azioni anatomiche, le quali sono veramente tante scene Dantesche”.

 

Nel suo complesso significato iconologico, dunque, la Testa anatomica si configura come il luogo indistinto delle certezze e delle contraddizioni umane, basato su un implicito rapporto tra ordine e caos che diviene manifesto, se non proprio emblematico, nella nitida contrapposizione tra l’esattezza apollinea delle proporzioni anatomiche e la tensione istintiva e dionisiaca delle figure da essa soggiogate.

Il restauro

Il supporto del quadro – un dipinto realizzato con tecnica a olio su tavola – è costituito dalla giunzione di due tavole lignee di pino assemblate sul verso tramite inserti a farfalla.
Dal punto di vista conservativo lo stato della tavola non presentava gravi problemi strutturali a parte una lievissima fessurazione verticale sul fronte in corrispondenza della giunzione delle due assi.
Le problematiche principali erano invece a carico dello strato pittorico e della preparazione. Nella parte in alto risultava evidente un fenomeno di cretto e conseguenti lacune e sollevamenti nonché precedenti interventi di ritocco ormai alterati e che interessavano in larga misura anche il bellissimo sfondo monocrono, che prima dell’intervento di restauro appariva alterato nella sua omogeneità originaria. 
La leggibilità dell’immagine era altresì compromessa dal diffuso ingiallimento della vernice protettiva a seguito del naturale processo di invecchiamento e la conseguente ossidazione.
L’intervento ha previsto in primis il consolidamento dei sollevamenti pittorici e con questo anche una lieve spianatura delle deformazioni delle isole di colore. Dopo i test preliminari di solubilità si è proceduto alle operazioni di pulitura mediante applicazione di una miscela solvente in grado di ricadere nell’area di solubilità della vernice da rimuovere ed applicata con un supportante in gel di agar in grado di evitare la penetrazione del solvente negli strati pittorici e di limitare al contempo la tossicità per l’operatore.
I numerosi ritocchi alterati o talvolta grossolanamente eseguiti sono stati rimossi con solvente a tampone e in alcuni casi sono stati rigonfiati e asportati puntualmente e meccanicamente con bisturi a lama mobile.
Durante le operazioni di pulitura sulla tavola sono state riscontrate due stesure di vernice una probabilmente originale, e l’altra successiva, stesa sulla precedente senza procedere però alla rimozione dello sporco superficiale depositato su quella originale che è stato poi asportato anch’esso durante questo intervento.
La fase di reintegrazione dopo la stuccatura delle lacune è stata forse una delle fasi più complesse soprattutto per quanto concerne lo sfondo che si caratterizza come un vero e proprio monocromo e, la reintegrazione a tono di un colore omogeneo, risulta sempre più complessa di casi in cui il colore è più vibrante o è il risultato della mescolanza di più colori
Comunque ad oggi, ad intervento ultimato possiamo affermare che c’è stato un importante recupero estetico nella lettura dell’immagine dipinta per quelle che erano le sue caratteristiche originarie e che ora è possibile riapprezzare in piena godibilità.  
Un dettaglio molto interessante che emerge più chiaramente dopo l’intervento di restauro è la lettura delle linee del disegno preparatorio probabilmente eseguita a grafite e visibile chiaramente su alcuni corpi anche ad una semplice visione ravvicinata.

L’intervento di restauro della “Testa anatomica”, voluto per questa Mostra, è stato realizzato nell’ambito del “Progetto Coworking” dell’Associazione Gottifredo, sostenuto dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale. È stato condotto tra novembre e dicembre del 2022 dalla restauratrice Natalia Gurgone della cooperativa koinè Conservazione Beni Culturali.

originale restaurata

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M. ass.palazzogottifredo@gmail.com

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